ISOLA DEL GRAN SASSO: L’OMISSIONE E IL RISORGIMENTO (di Guido Verna – 2^ parte)

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Sulla strada per Loreto, abbiamo fatto tappa nel Santuario di San Gabriele dell’Addolorata (1838-1862), ubicato in una posizione splendida, sotto il Gran Sasso ancora coperto di neve.

Quando si arriva qui, guardando la “vecchia” chiesa e quella “nuova”, l’una vicina all’altra, si percepisce istantaneamente, anche senza malizia polemica, come in cento anni siano stati stravolti i canoni costruttivi dell’architettura religiosa. La percezione sgradevole, poi, si incrementa e spinge ad un giudizio severo quando gli occhi abbracciano anche la tristezza di un telaio in cemento armato — ma con una copertura che ha vezzose sinuosità da pagoda — in cui sono costrette ad alloggiare le povere campane.

Non è questo, comunque, che mi riporto da San Gabriele, bensì qualcos’altro, meno evidente, più in ombra ma — almeno per me — di non poco significato.

Leggendo su un pannello la biografia del santo, rilevo — da parte degli autori — un “comportamento” deprecabile e non infrequente nei confronti della storia: l’omissione, una delle tipologie operative più utilizzate dai costruttori della Vulgata storica.

In questo caso, tale comportamento mi è sembrato ancor di più incomprensibile — e perciò ancor di più deprecabile — perché praticato, si potrebbe dire, dalle “vittime” rispetto ai “carnefici”. In dettaglio, si tratta di questo: su due pannelli verticali, viene descritta, via via, la vita del santo, fino ad arrivare ai momenti cruciali della sua esistenza: «1861 – 25 maggio: a Penne (Pescara) riceve gli Ordini Minori preparatori al sacerdozio […]; 1862 – 16 febbraio molto malato scende in chiesa per la comunione […] [; infine il] 27 febbraio […] muore». Poi, nella riga successiva, si riporta solo una notizia secca: «1866: espulsione dei Passionisti dal convento di Isola».

Senza nient’altro: da chi o perché, non si sa, nemmeno un cenno. Si va avanti, fino alla riesumazione della salma e ai miracoli strepitosi (17-18 ottobre 1892). Subito dopo, però, torna la notizia secca: «1894: I Passionisti tornano [sic!] nel loro convento di Isola del Gran Sasso». Sono passati quasi trent’anni dalla misteriosa espulsione…

Dunque: cacciati da casa loro per più di un quarto di secolo e al pellegrino non si ritiene di dover fornire qualche chiarimento — foss’anche minimo — su chi avesse cacciato i poveri passionisti dal loro convento sotto il Gran Sasso e sul perché lo avesse fatto!

Scoprire chi e perché oggi è molto facile (ma forse non era difficile nemmeno allora…): non è necessario andare in biblioteca e leggere tanti libri, è sufficiente una banale ricerca su Internet.

Si può cominciare, per esempio, da Cathopedia, l’enciclopedia cattolica “informatica”, dove – alla voce «Provincia Passionista Centro-Est Italia», al paragrafo 1.2 intitolato «La soppressione» – si può leggere questo: «La legge di soppressione delle congregazioni religiose, attuata sistematicamente dopo l’unità d’Italia sotto lo scettro dei Savoia, colpì duramente questa Provincia passionista. Vennero così soppressi i ritiri di Torre San Patrizio (1862), di Morrovalle nel 1864, di Recanati, Isola del Gran Sasso e Giulianova nel 1866. […] I religiosi dispersi trovarono ospitalità presso famiglie di benefattori o si stabilirono in altri conventi abbandonati. Così accadde per i religiosi di Isola del Gran Sasso che, in numero di 24, giunsero a Manduria (Taranto) e dopo una sistemazione provvisoria, nel 1881 fondarono un loro ritiro in quella città» [Link-1].

Chi volesse maggiori garanzie rispetto ad una enciclopedia popolare, può attingere da un sito per i 150 anni dell’Unità d’Italia (1861-2011), da considerarsi “d.o.c” perché provvisto del “bollino” del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. In esso, il capitolo «La nuova Italia e la Chiesa cattolica – La legislazione anti ecclesiastica» comincia così: «Con la legge 7 luglio 1866 il nuovo Stato italiano prendeva misure radicali nei confronti degli enti religiosi cattolici presenti nel Regno e del loro patrimonio. La legge in questione disponeva infatti la soppressione di ordini, corporazioni e congregazioni religiose “i quali importino vita comune ed abbiano carattere ecclesiastico”» [Link-2].

Si trattava delle cosiddette «Leggi eversive» (l’altra sarà del 15 agosto 1867), che — per rimanere nei mezzi di informazione informatici di più facile accesso e utilizzazione — in Wikipedia, l’enciclopedia popolare più diffusa “in rete”, alla voce «Leggi Siccardi [(1802-1857)]», vengono introdotte in questo modo: «Con l’avvento del Regno d’Italia, avvenuto nel 1861, e le difficoltà di bilancio provocate dalla seconda e terza guerra di indipendenza, il Governo adottò nei confronti della Chiesa una politica limitativa, in particolare rispetto agli enti ecclesiastici tramite le cosiddette Leggi eversive»[Link-3].

Tutto molto chiaro e facilmente acquisibile, dunque, dando soltanto qualche minima indicazione di percorso. Che, però, nel nostro caso si ritiene di omettere. Eppure, se Dio vuole, oggi, non solo è facile farlo, ma non si dovrebbero nemmeno correre rischi a raccontare la storia nella sua interezza.

O, magari, si corrono, anche se meno evidenti: per esempio, quelli dell’incomprensione — con la possibile conseguente “fatica” del “dover spiegare” — o, forse soprattutto, quelli della taccia del “politicamente scorretto”, ciò che potrebbe generare frizioni e tensioni — e, quindi, successivi “fastidi” — con il potere non solo culturale vigente… Pertanto, a nessuno, men che meno al pellegrino, vanno messe pulci nelle orecchie e creati problemi di storia: il mito del Risorgimento va salvato così come è stato “costruito” e studiato a scuola, anche a costo di omettere un’informazione fondamentale per conoscere la verità dei fatti, al tempo stesso anche “pericolosa”, perché da essa potrebbe apparire chiaro l’odio per la religione e la Chiesa cattolica che lo ha animato.

A chi ritenesse questo giudizio eccessivo, offro le citazioni che seguono, brevi ma “corpose” ed esaurienti, relative ai tre “motori” risorgimentali: l’ideologo “seminatore”, Giuseppe Mazzini (1805-1872); la mente politica, Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861); e, infine, il braccio armato, Giuseppe Garibaldi (1807-1882).

Comincio con Mazzini, l’ideologo “seminatore”, limitandomi solo alla sua descrizione lapidaria del rapporto che intratteneva con la nostra religione: «Noi non siamo cristiani — afferma senza perifrasi —perché non crediamo più […] alla divinità eccezionale di Cristo, né alla caduta, né alla redenzione per i soli meriti di Cristo, né alla resurrezione al cielo cristiano» [FPA-1]. E ancora: «Il vostro dogma umanizza Dio: il nostro tende a divinizzare lentamente, progressivamente, l’uomo» [FPA-2].

Proseguo con Cavour, la mente politica. Egli, fin dalla sua prima partecipazione governativa, nel 1850, e poi come Presidente del Consiglio di un governo di coalizione — formato nel 1852 alleandosi al “centro-sinistra” di Urbano Rattazzi (1808-1873) — si è esercitato nella pratica prima legislativa e poi esecutiva di azioni malvagie tese a raggiungere agevolmente il suo obbiettivo: “rubare” alla Chiesa di Roma per risanare le finanze piemontesi. Come racconta lo scrittore cattolico irlandese Patrick O’Clery (1849-1913) nel suo bel libro La rivoluzione italiana, «Il 10 marzo 1854 [— quindi ben prima dell’unità d’Italia —] i beni del seminario vescovile venivano confiscati e, nell’agosto, i Canonici lateranensi e della Santa Croce furono espulsi dalle loro case nella capitale [Torino]. Nel novembre Rattazzi, come ministro dell’Interno, presentò alla Camera dei deputati una legge per la soppressione di tutti i conventi e monasteri negli Stati piemontesi, nonché per il sequestro delle loro proprietà, adducendo apertamente ragioni finanziarie per motivare questo furto colossale. Quando la legge fu portata al Senato, nell’aprile successivo, i vescovi offrirono al Tesoro una somma equivalente a 900.000 franchi, purché quella legge fosse ritirata. Il governo però, mettendo da parete qualsiasi considerazione finanziaria, era ormai determinato a sopprimere gli Ordini religiosi. L’offerta dei vescovi venne respinta, la legge fu imposta al Parlamento e divenne esecutiva il 25 maggio 1855» [PKC].

Concludo con Garibaldi, il braccio armato. Anche per lui è sufficiente una citazione epigrafica. Con il “garbo” che gli è proprio, l’“eroe dei due mondi” individuava il nemico principale contro il progresso illimitato dell’umanità — che era la sua grande certezza — nella Chiesa cattolica, la quale, a sua volta, era rappresentata “mirabilmente” dalla figura del prete «[…] la più nociva di tutte le creature, perché egli più di nessun altro è un ostacolo al progresso umano alla fratellanza degli uomini e dei popoli» [FPA-3].

Forse qualcuno nel santuario di San Gabriele dovrebbe tener conto di tutto ciò. La memoria di questo straordinario giovanissimo santo, il santo dei miracoli, avrebbe meritato una maggiore attenzione. Ma, volendo, c’è sempre tempo…

(2. continua)

 

 

 

[Link-1] <http://it.cathopedia.org/wiki/Provincia_Passionista_Centro-Est_Italia?pk_campaign=AddToAny>

[Link-2] <http://www.150anni.it/webi/index.php?s=29&wid=58>

[Link-3] <http://it.wikipedia.org/wiki/Leggi_Siccardi>

[FPA-1] Francesco Pappalardo, Il mito di Garibaldi. Una religione civile per una nuova Italia, con una presentazione di Alfredo Mantovano, Sugarco, Milano 2010,  p. 41. La citazione di Mazzini è tratta da G. Mazzini, A Félicité de Lamennais, 29-11-1840, in S.E.I., vol. 19, pp. 355-359 (p. 357)

[FPA-2]  Ibidem. La citazione di Mazzini è tratta da Idem, in Dal Concilio a Dio, ibid., vol. 86, pp. 241-283 (p. 263)

[PKC] Patrick Keyes O’ Clery, La Rivoluzione Italiana. Come fu fatta l’unità della nazione, traduzione e presentazione di Alberto Leoni, con bibliografia e indice dei nomi a cura di Guglielmo Gualandris, trad.it., Ares, Milano 2000, p. 248.

[FPA-3] F.Pappalardo, Il mito di Garibaldi. Vita, morte e miracoli dell’uomo che conquistò l’Italia, con una presentazione di mons. Andrea Gemma F.D.P., vescovo di Isernia-Venafro, e un’introduzione di Giovanni Cantoni, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 2002, p. 32. La citazione di Garibaldi è tratta da G. Garibaldi, Scritti e discorsi politici e militari, Cappelli, Bologna 1937, vol. III (1868-1882), p. 334.