L’ENCICLICA DI BENEDETTO XVI “CARITAS IN VERITATE”: LO SVILUPPO E’ VOCAZIONE (di Michele Tuzio)

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L’Enciclica sociale di Benedetto XVI,  “Caritas in Veritate”,  tanto attesa, più volte annunciata e finalmente resa pubblica il 07 luglio 2009, è costruita su due principi fondamentali:
1. Il primo  è che «solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta» [n.3]. Senza verità la carità si riduce a sentimentalismo, emozione, opinione contingente. «Le esigenze dell’amore non contraddicono quelle della ragione» [n.30]
2.  Il secondo princìpio è che lo sviluppo deve essere considerato «integrale», non solo nel senso già insegnato da Paolo VI nella “Populorum Progressio” («per tutto l’uomo e per tutti gli uomini»),  ma anche in una prospettiva «interdisciplinare» dei saperi, a cui la Dottrina Sociale della Chiesa può fornire «la dimensione sapienziale» di cui è portatrice [n.31]. Oltre che integrale, lo sviluppo va considerato  come una vocazione, dono gratuito che «nasce da un appello trascendente» ed « è incapace di darsi da sé il proprio significato ultimo» [n.16]: l’uomo, infatti, è ferito dal peccato originale [n.34] e dimenticarsene  «è causa di gravi errori nel campo dell’educazione, della politica, dell’azione sociale e dei costumi», ma anche in campo economico e finanziario, come dimostra la crisi che stiamo attraversando. Le tre dimensioni inscindibili della libertà responsabile [n.17], della verità [n.18] e della carità [n.19] si oppongono alla tesi erronea che lo sviluppo sia il frutto del “caso” o della “necessità”, del «capriccio»  o di «meccanismi naturali» [n.68], storici, [n.17] evolutivi [n.48].

Gratuità e vocazione: lo sviluppo come questione economica e sociale
Una delle attività che non può prescindere dal principio della gratuità e dello sviluppo integrale come vocazione è l’attività economica, che deve uscire dalla logica del «binomio esclusivo mercato-Stato»,  [n.39], secondo la quale all’economia e al mercato spetterebbe la produzione e lo scambio di beni e servizi (con la predilezione del profitto e dell’impresa privata), e allo Stato spetterebbe la ridistribuzione della ricchezza (con la predilezione del “pubblico” e delle strutture assistenziali). Sarebbe invece necessario che, senza negare il mercato (da cui non bisogna proteggersi come se fosse la morte dei rapporti «autenticamente umani» [n.36]) e senza negare le logiche politiche e lo Stato (cui non si può comunque delegare totalmente il problema della solidarietà [n.38]), tra i due soggetti si incuneasse «un’ economia della gratuità» nella società civile [n.38], tenendo sempre presente che tutte le fasi dell’attività economica (dal reperimento delle risorse ai finanziamenti, dalla produzione al consumo) «hanno ineluttabilmente implicazioni morali» [n.37]. Le due idee – guida, per una collaborazione fraterna, anche tra credenti e non credenti, sono «il principio di sussidiarietà» e «il principio di solidarietà» [n.58]: il primo è garanzia di libertà, «l’antidoto più efficace contro ogni forma di assistenzialismo paternalista»; il secondo, evitando lo scadimento nel «particolarismo sociale» [n.58], permette di educare ad una «cooperazione allo sviluppo» non solo di carattere economico, ma anche di carattere «culturale  e umano», basato su quella «legge morale universale…scritta nei cuori» [n.59]. Al tema della cooperazione – sia detto di passaggio – è legato il fenomeno delle migrazioni [n.62] e le tematiche del lavoro e della sua tutela sindacale [nn.25-63-64]. Oggi si richiedono, tra l’altro,  «profondi cambiamenti nel modo di intendere l’impresa» [n.40] e anche l’attività finanziaria: è necessario «evitare che il motivo per l’impiego delle risorse finanziarie sia speculativo e ceda alla tentazione di ricercare solo profitto di breve termine, e non anche la sostenibilità dell’impresa», nel «servizio all’economia reale» [n.40] [cfr. anche n.65].

Gratuità e vocazione: lo sviluppo come “questione antropologica”
I principi della gratuità e dello sviluppo integrale come vocazione sono strettamente connessi ad altri ambiti, ben più importanti dell’economia:
• Lo sviluppo  è strettamente connesso al rispetto per la vita [n.28], minacciata in certe regioni da alti tassi di mortalità infantile, e in altre da «una mentalità antinatalista» propagandata «come se fosse un progresso culturale». C’è poi il problema della crescita demografica [n.44], erroneamente considerata «la causa prima del sottosviluppo», mentre è vero esattamente il contrario: «Grandi Nazioni hanno potuto uscire dalla miseria anche grazie  al grande numero e alle capacità dei loro abitanti», mentre Nazioni floride hanno conosciuto  il declino proprio a causa della denatalità, che «mette in crisi anche i sistemi di assistenza sociale, ne aumenta i costi» e riduce sia il  risparmio, sia le  risorse finanziarie, sia la  disponibilità di lavoratori qualificati, restringendo «il bacino dei cervelli».  La Chiesa, poi, ricorda con insistenza  che la sessualità non può essere ridotta «a mero fatto edonistico e ludico» né l’educazione sessuale «a un’istruzione tecnica», preoccupata soltanto di contagi e “rischi procreativi” [n.44];
• Lo sviluppo è strettamente connesso al «diritto alla libertà religiosa» [n.29], cui si oppongono sia il «fanatismo religioso» (ad es. il terrorismo fondamentalista), sia «la promozione programmata dell’indifferenza religiosa o dell’ateismo pratico», che sottrae ai popoli risorse spirituali e umane per lo sviluppo. La libertà religiosa non va interpretata come indifferenza e «non comporta che tutte le religioni siano uguali» [n.55].
• Lo sviluppo implica pure il pieno riconoscimento dei doveri [n.43], senza i quali i diritti non hanno più un fondamento e diventano arbitrio.  Accade così che, accanto a rivendicazioni  «di carattere arbitrario e voluttuario… del diritto al superfluo o addirittura alla trasgressione e al vizio, nelle società opulente», corrisponde, nelle zone di sottosviluppo, la mancanza di beni necessari alla sopravvivenza.
• C’è uno stretto legame tra lo sviluppo e il «rapporto dell’uomo con l’ambiente naturale» [n.48]. La natura, «dono del Creatore  che ne ha disegnato gli ordinamenti intrinseci», va custodita, coltivata e legittimamente usata per il soddisfacimento dei bisogni, ma vanno rifiutate sia  la tendenza a considerarla «più importante della stessa persona umana» (scivolando verso «atteggiamenti neopagani o di nuovo panteismo»), sia la tendenza «alla sua completa tecnicizzazione».
• Infine,  in uno dei paragrafi più belli dell’Enciclica [n.76], il Pontefice si spinge fino in fondo alla pretesa totalitaria della tecnica (cui è dedicato tutto il capitolo sesto), mostrando come la manipolazione possa toccare anche l’interiorità dell’uomo, riducendo l’anima al «punto di vista psicologico» e la sua salute a «benessere emotivo», svuotandola di quella profondità «che i Santi hanno saputo scandagliare».
Da queste considerazioni appare dunque evidente che oggi «la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica», [n.75], cioè che essa chiama in causa «il modo stesso non solo di concepire, ma anche di manipolare la vita, sempre più posta dalle biotecnologie nelle mani dell’uomo. La fecondazione in vitro, la ricerca sugli embrioni, la possibilità della clonazione e dell’ibridazione umana» [n.75] aprono «scenari inquietanti per il futuro dell’uomo». All’aborto, si aggiunge il pericolo di una «sistematica pianificazione eugenetica delle nascite» e della diffusione di una mentalità favorevole all’ eutanasia, negatrice della dignità dell’uomo. Questo ci porta necessariamente a concludere che «un umanesimo senza Dio è un umanesimo disumano» [n.78] e che «lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio» [n.79], nella consapevolezza che è «l’amore pieno di verità», a renderlo possibile:  lo sviluppo «non è da noi prodotto ma ci viene donato». Questo ci  dispone «alla Provvidenza e alla Misericordia divine», alla rinuncia di noi stessi e all’accoglienza del prossimo, «per «trasformare “i cuori di pietra” in “cuori di carne”», e così sostenere la vocazione «allo sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gi uomini» .

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