La moderna letteratura economica si è dimenticata del principio di reciprocità, di quel principio, cioè, il cui fine proprio è tradurre in pratica la cultura della fraternità.
Aver dimenticato che non è sostenibile una società di umani in cui si estingue il senso di fraternità e in cui tutto si riduce, per un verso, a migliorare le transazioni basate sullo scambio di equivalenti e, per l’altro verso, ad aumentare i trasferimenti da strutture assistenziali di natura pubblica, ci spiega perché ormai, in economia, siamo dinanzi ad un empasse. Da un lato, infatti, c’è la visione liberal-individualistica del mondo, in cui tutto o quasi è scambio; dall’altra vi è la visione stato-centrica della società, in cui tutto o quasi è obbligo.
Stefano Zamagni, professore ordinario di Economia politica all’Università di Bologna, Adjunct Professor of International Political Economy alla Johns Hopkins University, nonché Consultore del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace fin dal 1991 e membro della New York Academy of Sciences dal 1999, ritiene che in economia ci sia una terza via: ne da conto in “L’economia del bene comune”, un suo libro pubblicato (ormai già alla terza edizione) da Città Nuova (Roma, febbraio 2011, pagg. 239).
In questo volume Zamagni offre un’ampia e articolata riflessione sul tema del bene comune, categoria di pensiero che un tempo era al centro del pensiero economico, fino a scomparire del tutto –anche dal lessico- a partire dalla fine del XVIII secolo, e cioè dall’età dei lumi e della Rivoluzione francese. Per l’Autore tale scomparsa è attribuibile al risultato congiunto di due fenomeni: l’avvento dell’economia di mercato capitalistica e la predominanza dell’etica utilaristica di Jeremy Bentham. Ma il concetto di “bene comune”, cacciato dalla porta, non può che rientrare dalla finestra. Dinanzi alla crisi economica globale e ai grandi fallimenti sociali dei nostri tempi, infatti, la scienza economica negli ultimi anni percepisce i gravi limiti a cui si autocondanna escludendo dal proprio orizzonte la nozione di “bene comune”.
Lo sforzo di Zamagni allora è dimostrare quanto una scienza economica aperta al dato relazionale avrebbe da guadagnare, visto che l’interesse di ogni individuo si realizza assieme a quello degli altri e non già contro o a prescindere dagli altri. E’ il senso del principio di reciprocità, per cui “io ti do liberamente qualcosa, affinché tu possa a tua volta dare, secondo le tue capacità, ad altri o eventualmente a me.”.
Anche il mercato può diventare mezzo per rafforzare il vincolo sociale, sia attraverso la promozione di politiche di distribuzione della ricchezza sia – soprattutto – con la creazione di uno spazio economico in cui sia possibile mettere in pratica i valori della fiducia e della solidarietà. E’ un fatto ampiamente documentato – scrive Zamagni – che il modello della nuova competizione nel nostro Paese si è consolidato ed è fiorito in quelle regioni che, nei secoli passati, hanno visto nascere e irrobustirsi forti strutture di solidarietà e fraternità. In buona sostanza si tratta di tornare ad “umanizzare” il mercato e non di eliminarlo, precipitando nell’utopia del collettivismo. Così affianco dell’impresa multinazionale di tipo capitalistico dovrà trovare posto la bottega artigiana, la cooperativa, l’impresa sociale e familiare, le imprese dell’economia di comunione: realtà queste che “…con il loro stesso esistere, inseriscono dentro il mercato la reciprocità non strumentale.”.