L’OCCIDENTE E LA CINA

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Riprendiamo dalla Repubblica del 15/05/2024, a pag. 24, con il titolo “La posta in gioco a Taiwan” l’analisi di Gianni Vernetti:

La Cina è sempre meno un attore responsabile sulla scena globale e il crescente asse con Russia e Iran, certificato dalle recenti manovre militari congiunte nello stretto di Hormuz, insieme alla mai smentita “alleanza senza limiti” fra Pechino e Mosca sostanziata dalle forniture di macchinari per la produzione bellica, come denunciato da Antony Blinken, rende necessario per l’Occidente ripensare la dottrina dell’unica Cina, e mettere in cantiere le azioni necessarie di deterrenza nell’Indo-Pacifico per scongiurare l’uso della forza da parte di Pechino contro Taiwan.

Per Pechino l’unicità della Cina è un fatto acquisito nel diritto internazionale da quando venne approvata dall’assemblea generale delle Nazioni Unite la Risoluzione 2758 del 1971 con la quale la Repubblica Popolare Cinese venne riconosciuta come legittimo rappresentante della Cina e come uno dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Da allora la “Roc” (Republic of China-Taiwan) perse il seggio nel Palazzo di Vetro e mantenne lo status, che ha conservato fino a oggi, di Paese autonomo e indipendente de facto, ma non de iure.

Da allora, i due Paesi hanno intrapreso strade opposte che oggi stanno entrando in collisione. Pechino, grazie all’inclusione nei processi di globalizzazione, è cresciuta fino a diventare la seconda potenza economica del pianeta, realizzando una sorta di capitalismo anomalo, con economia in “libertà vigilata” e assenza di diritti.

Taiwan si è trasformata invece una società libera e aperta, con elevati standard in materia di democrazia e progresso economico: con soli 23,5 milioni di abitanti e 190 miliardi di dollari di Pil è diventata in pochi anni la ventesima economia del pianeta, producendo il 90% dei semiconduttori di ultima generazione, grazie ai quali tutte le nostre tecnologie sono in grado di funzionare.

Che la Cina non sia “una”, e che di Paesi cinesi ne esistano due, è dunque una realtà consolidata: c’è una Cina più grande e totalitaria, che viola i diritti di 1,4 miliardi di essere umani, e c’è una Cina più piccola e democratica, Taiwan, sempre più integrata nella comunità delle democrazie e nell’economia globale.

In più, dodici Paesi al mondo hanno rapporti diplomatici esclusivamente con Taiwan: Paraguay, Guatemala, El Salvador e diversi piccoli Stati insulari del Pacifico e dei Caraibi.

Ma il vero cambiamento in materia di One China Policy (la politica dell’unica Cina) è stata la fine della formula “un Paese-due sistemi”: la morte della città libera di Hong Kong per mano della scure totalitaria di Pechino ha fatto definitivamente tramontare ogni possibilità che Pechino possa tollerare davvero la coesistenza di “due sistemi” sotto lo stesso tetto.

In India si inizia a discutere apertamente della fine della One China Policy, come ricorda Eerishika Pankaj, direttrice del think tank indiano Organisation and Research on China and Asia: «Come può pretendere Pechino che venga universalmente riconosciuto il principio delle One China Policy, quando rivendica l’intero Stato indiano dell’Arunachal Pradesh e non riconosce ampie porzioni del confine indiano sull’Himalaya? Pechino riconosca intanto una One India Policy e poi se ne potrà discutere».

A ciò si aggiunge la questione tibetana e le crescenti tensioni fra India e Cina sull’Himalaya. Pechino ha recentemente cambiato il nome del Tibet in Xizang, ha intensificato il build-up militare su tutto l’altipiano occupato da oramai 65 anni e ha avviato una ulteriore stretta repressiva sul modello di quanto già accaduto nella regione uigura del Xinjiang.

Lo scorso febbraio, il governo di Nuova Delhi ha poi compiuto un ulteriore passo di allontanamento dalla politica dell’Unica Cina siglando un accordo bilaterale fra India e Taiwan sulla realizzazione di flussi migratori fra i due Paesi per venire incontro alle crescenti carenze di manodopera a Taiwan nel settore manifatturiero, delle costruzioni e dell’agricoltura.

A ciò si aggiunge la crescente tensione fra Cina e Filippine in risposta all’occupazione illegale da parte di Pechino di una enorme porzione del Mar Cinese Meridionale. La Corte Permanente di Arbitrato dell’Aja, nel quadro della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (Unclos), si è pronunciata nettamente a favore delle Filippine, ritenendo le rivendicazioni marittime della Repubblica Popolare Cinese totalmente illegittime.

Il summit dello scorso aprile fra Usa, Giappone e Filippine nasce in risposta alla postura sempre più aggressiva di Pechino nell’area e l’intesa siglata fra i tre Paesi prevede un’ampia cooperazione civile e militare. L’Australia ha già dichiarato di volere aderire a questo nuovo Quad.

Infine, l’appello del Segretario di Stato Antony Blinken, con la forte richiesta degli Stati Uniti affinché Taiwan venga nuovamente invitata a partecipare come osservatore all’Organizzazione Mondiale della Sanità, completa il quadro e conferma la necessità anche per l’Europa (e l’Italia) di aggiornare le proprie strategie geopolitiche nei confronti di Cina e Taiwan con l’obiettivo di ridurre le tensioni nello stretto ed evitare i rischi di un nuovo conflitto.